Se risolveremo l’emergenza del virus attraverso politiche di condivisione del sapere
e un approccio complesso alla gestione dei problemi globali,
scopriremo forse di avere sviluppato gli anticorpi per affrontare globalmente
molte delle tremende questioni che affliggono il pianeta.
Pamela Boldrin
Siamo soltanto a giugno ma l’impressione è che il 2020 farà per sempre rima con questa nuova parola: Covid-19. Un termine che a gennaio era semisconosciuto ma che in poche settimane ha fatto il giro del mondo; ancora oggi viene pronunciato più e più volte nell’arco delle nostre giornate. Così difficile è stato abituarci alla sua presenza e così lentamente sembriamo distaccarcene perché stiamo ormai comprendendo che, almeno per un po’, il mondo e il nostro bagaglio di certezze non saranno più gli stessi.
Oggi che manca l’urgenza dei report giornalistici delle ultime settimane, forse è il momento di entrare più in profondità nell’argomento, perché la verità è che nonostante tutto quello che abbiamo patito in questi mesi, non possiamo farci sfuggire questa importante occasione: quella di fermarci a riflettere.
Covid-19 ha portato dolore, morte, sofferenza, difficoltà economiche, incomprensioni, abbandono sociale, paura, ansie, panico, smarrimento, fatica, isolamento, dubbi. È stato – ed è ancora – un grande evento, come lo potrebbe definire Hannah Arendt, e così va accolto: come un’occasione di trasformazione e di pensiero. Questa raccolta di scritti testimonia non solo la nostra necessità di cambiare le proprie prospettive di fronte a questo avvenimento, ma anche quanto alcune cose siano effettivamente mutate, quanto poco sicure e stabili possono essere le nostre certezze. Il cambiamento deve anche essere l’ottica con cui guardare al futuro, per trasformare quelle dinamiche nocive che hanno provocato un problema così grave. Un cambiamento che, come ci ha dimostrato anche il virus, non può avere dei confini nazionali ma deve abbracciare tutti i Paesi del mondo.